ANCARANI Maria Elisabetta

“Brutto muso”

Quel brutto muso lì non lo voglio vedere.

Da qui ho la visuale completa del vicinato. Alle 11 arriva il fattorino delle verdure da Gianni. Alle

19 del sabato arrivano le 6 pizze per la Tonina. Alle 11 di ogni sera la Sabri esce a farsi una

passeggiatina illegale.

Da qui controllo tutta Via Impaurita.

Spio le vite degli altri, il colore del cielo e delle foglie, il peso del silenzio. Che altro posso fare in

questo esilio in cui ci hanno costretti? Anzi, lòcdao, come dicono in tv. Osservare gli altri, da dietro

la tenda, mi tiene compagnia.

Ma quello lì di fronte no, non lo voglio vedere.

Se ne sta tutto il giorno fuori, con la moglie e i figli, cosa avrà da zappettare? Ecco, se il virus entra

nei miei vecchi polmoni sarà per colpa loro, che si prendono tutta l’aria davanti casa mia. E tutta

quella puzza di curcuma o chessò io è stordente. Hanno la pelle così scura che mi fa pensare al mio

fondente 90%. Quello che è finito e che dovrei comprare.

Mi guardo bene dal salutarlo quello lì, sarà di sicuro un terrorista.

Ogni tanto tira su la testa e sorride alla mia tenda.

Ho finito anche la pasta e il caffè. Vorrei così tanto un po’ di pane caldo di forno.

Ma ho paura a uscire.

Mia sorella sta due vie più in là. Non ci siamo ancora chiamate. Sarà impegnata a badare quei due

nipoti viziati.

È sempre stato complicato fra me e lei.

Potrei andarci, a fare la spesa.

No, non ci vado.

Stasera posso fare benissimo latte e pane vecchio.

Mo’ che bel pensiero: un cesto sul cancello, di bei radicchi, un grappolo di ravanelli.

E quelle fragole. Me le mangerò tagliate sottili con lo zucchero e il limone, come me le preparava la

mamma, da piccola, appena colte nell’orto.

Vedi che mia sorella mi vuol bene.

Non è stata mia sorella.

Signora stai bene? Piaciute fragole? Vengono da mia piccola serra. Se bisogno, io ti faccio spesa.

Perché mai sono uscita a togliere le ragnatele dall’ingresso, perché. Ho mangiato tutto e ora morirò,

avvelenata e sola.

Non sono mica morta.

Che buone le fragole. Grasse, succose.

La mamma ne portava sempre anche ai vicini. Lui ha fatto lo stesso con me.

Mi fa la spesa ogni settimana. Mi allunga gentile la sporta e io pregusto tutto quel bendidìo.

Chi l’avrebbe mai detto. Ha un sorriso così bianco, una lama di sole.

Mi ha raccontato del lavoro in fabbrica, della cassa integrazione.

Ti piace la crostata? Piace ai tuoi bambini? Te la faccio con la marmellata che ho fatto con tutte

quelle fragole, mi è venuta così dolce.

Nell’aria si mescolano i profumi, il gelsomino, il coriandolo, la curcuma, la crostata per Gino. Si

chiama Mansur ma io lo chiamo Gino, che faccio prima.

Oggi allo specchio mi sono vista.

Ridevo.

Da quanto tempo non lo facevo? Mi sento come quando la mamma mi preparava le fragole,

l’acidulo e lo zucchero che si scioglievano insieme sul palato facendo esplodere in bocca la

primavera. Una carezza calda nella pancia e sul viso.

Quel brutto muso lì, rugoso e avvizzito, dietro la tenda, a odiare tutti, non lo voglio più vedere.

Ora esco. Porto la torta a Gino.