GERVASI Giovanni

“Te lo dico domani”

A metà degli anni settanta l’inverno a nord di Ravenna era stato particolarmente rigido. Non c’era lavoro nei campi imbiancati dalla neve e noi braccianti eravamo costretti a casa in attesa di tempi migliori. Nella desolazione della stanza, a volte mi sembrava di uscire dal corpo e vedermi dall’alto, disteso sul letto, incapace di dormire. Ne avevo parlato col medico che mi aveva prescritto degli ansiolitici. Anche lui aveva l’aria stanca.

«Rimani ancora un po’» mi aveva supplicato indicando con un cenno del capo l’affollata sala d’attesa « non ne posso più delle solite facce, parliamo un po’… io e te.»

Originario di Torino, la sua indole sabauda mal si conciliava col carattere proletario della bassa.

In un certo senso anch’io ero uno straniero. Cresciuto non molto lontano, a est della via Emilia, dove la vita del paese ruotava attorno alla parrocchia, lasciare la fabbrica per trasferirmi in quella terra di senza Dio riottosi era stato un azzardo.

Un giorno sarei diventato il più giovane membro del consiglio d’amministrazione della cooperativa e avrei rivendicato con orgoglio quella scelta controcorrente, ma intanto dovevo confrontarmi con i miei fantasmi. Da solo.

Anche adesso, bloccato in casa dalla pandemia, la mente vaga randagia. Disteso sul letto osservo il raggio di sole che dal lucernario si affaccia sull’ennesima insulsa giornata. Il silenzio é insopportabile, accentua il ronzio dell’orecchio destro che mi tormenta da anni. Mi affaccio alla finestra che da sul cortile di fronte, il vicino albanese spunta i capelli al piccolo Ermal, mentre sua madre balla a piedi nudi sul cemento nel tentativo di distrarlo.

In strada sguardi rassegnati dietro le mascherine ormai portate con disinvoltura, una signora elegante ne sfoggia una decorata con motivi floreali.

Passo la mattinata a imprecare contro il virus che mi porta a una manutenzione forzata della casa. Detesto me stesso, la confidenza che mio malgrado sto prendendo col tempo sospeso della quarantena.

Mi manca mio figlio che non vedo da mesi, mi mancano le uscite con gli amici e le loro battute argute. Anche le telefonate sono tutte dello stesso tenore dato che tutti viviamo la stessa situazione, tanto vale censire le lucertole in giardino. O i bombi che svolazzano di fiore in fiore.

Solo Agnes, la mia vicina tedesca, dopo anni di mal di vivere, é tornata a sorridere. Una puntigliosa rivincita sulla depressione generale provocata dal corona virus. Se penso alle telefonate e alle corse in piena notte temendo il peggio, stento a riconoscerla.

«Tiravi giù come sabbie mobili …» ho scherzato con lei al telefono. “Non avrà più bisogno di me”, mi sorprendo a pensare.

Da dietro il cancello del suo esilio forzato Ermal mi chiama.

Vuole sapere quando potrà tornare a giocare nel mio giardino e arrampicarsi sul ciliegio.

Nato prematuro, è piuttosto minuto per i suoi quattro anni, ma parla disinvoltamente albanese o italiano a seconda del suo interlocutore. Da quando suo nonno, divorato dalla nostalgia, è tornato alle pietraie del suo villaggio, c’è un velo di malinconia nei suoi occhi.

« Posso chiamarti nonno?», domanda a bruciapelo.

« Mmmmm … devo pensarci. Te lo dico domani.»

Ne parlo con sua madre, dice che se lo aspettava e mi sdogana con un sorriso.

Preso da una strana frenesia, ammucchio sul tavolo tutto il materiale che serve per costruire un aquilone. Ermal ed io lo faremo volare nel campo dietro casa, appena sarà possibile. Basterà un refolo di vento e pochi semplici gesti. Uno spago connesso al cielo, un vecchio e un bambino, la vita che ricomincia a correre.

E comunque domani, gli dico di si.