GUANDALINI Massimiliano

“La tana”

I suoi occhi erano chiusi, le guance erano pallide e gonfie. Il corpo giaceva in quella cassa anonima di legno, in mezzo ad una sala stipata di persone che nemmeno conoscevo. Dopo aver abbracciato il marito di Arianna, mi sono allontanato da quel monumento grigio. Non volevo guardarla, me lo ero promesso, ma per colpa di non so quale curiosità, non ho resistito. È stata una funzione veloce, quasi indolore, o almeno pensavo. Ho sempre creduto che le persone rifiutassero il pensiero della morte, forse per paura, o forse solo perché era qualcosa che non li riguardava, per il momento. Tutti noi crediamo di essere eterni, per un attimo ci illudiamo che l’immortalità sia la nostra dimensione, poi improvvisamente facciamo conoscenza di questa nostra compagna. Sì, proprio lei. La luce del sole si era fatta calda e gialla, il parcheggio era circondato da un’aurea mistica, sacrale, e le vetture volgevano ai lati della processione, come simulacri posti a protezione di quel piccolo corpo. Ancora nella mia mente rivedo quelle immagini, quel filo di gente che cammina lentamente, e non sento nulla. Osservo oggi, da questa mia Tana, le persone che passeggiano nella strada sottostante, con i volti semi coperti da mascherine mediche. Sguardi splendenti e occhi spenti, tutti noi cerchiamo di rinascere ogni giorno, con forza, con vigore. Cosa ci aspetta nel futuro? Fino a pochi mesi fa, quando ho salutato per l’ultima volta Arianna, ho pensato che il meglio che potessi aspettarmi dal mio sentiero fosse qualche buona soddisfazione lavorativa, una giusta dose di piaceri terreni e un goccio di saggezza da sorseggiare lungo la via, di tanto in tanto, magari per impressionare qualche amico o conoscente. Giusto per fare felice il mio ego, insanabile ottimista e perverso immortale. Il mio lavoro rispecchia il lato umano più diabolico: i numeri li uso, li controllo e li movimento a mio piacimento, un po’ come un divino Artefice che quando si annoia muove qualche pianeta o qualche stella. Tutti i giorni, nel mio monitor, tendo a compiacermi in quel mondo astratto, fondato sulla logica, sul rigore e su un indiscutibile quanto fastidioso equilibrio. Ogni aspetto della mia esistenza è illuminato dai raggi di questo perverso razionalismo. Dal passato al presente: sto inserendo un elenco di cifre, una dopo l’altra, ognuna nella sua cella. Dopo averle incatenate, faccio tornare il tutto, equilibrando come un chimico le dosi del mio composto. Soddisfatto del lavoro abbasso lo schermo, mi massaggio il collo e fisso il vuoto davanti a me. Quel vuoto che, a differenza di qualcuno, mi ha sempre affascinato. Il nulla, il niente che naviga tra me e voi. Quella mancanza di qualcosa per me è pienezza del tutto che non c’è ma che potrebbe esserci. Potenzialmente posso riempirlo con ciò che voglio. A volte mi illudo anche di poter decidere come dipingere quella tela bianca che mi si pone davanti: rosso, bianco, nero o forse un taglio netto. Mi alzo dalla sedia, si è fatto tardi. Mi accorgo, dopo aver aperto la porta d’ingresso, che mi sono dimenticato la mascherina. Ne ho diverse, le pulisco tutte le sere. Sono una in fila dopo l’altra, e ogni volta devo solo decidere quale indossare. È una catena che voglio dipanare, in questa mia dolce Tana.