MAI Maurizio

“Contagio”

Cosa c’è poi da ridere? Guardavo questo ragazzo dalla pelle scura che giocava a pallone sulla spiaggia deserta. Un migrante, l’avevo riconosciuto. Era arrivato la sera prima su una piccola barca da pescatore assieme ad altri compagni, tutti maschi più o meno giovani, tranne l’unica donna già un po’ in là con gli anni.

Ero su uno scoglio per i fatti miei. Cercavo di stupirmi guardando l’ennesimo tramonto invernale sul mare, ma senza risultato. Il ragazzo scese dalla barca per ultimo e mi lanciò un sorriso. Lo guardai e rimasi sconcertato. Non doveva essere stato un viaggio facile. Non ha niente e sorride, pensai.

Stavo attraversando un brutto periodo. Mi ero rintanato in questa località del sud in pieno inverno, un posto isolato e desolato. Avevo viaggiato in treno, un vecchio treno locale della cui esistenza continuavo a dubitare nonostante fossi già in viaggio. Pensavo che i treni locali non esistessero più. Invece arrivò in perfetto orario. La stazione del paese era davvero come s’immagina comunemente una stazione di paese. Due soli binari, una pensilina con tre panche di ferro, l’indicazione della toilette nascosta dietro l’angolo della biglietteria, una serranda chiusa con l’insegna rotta, il pannello di metallo arrugginito ancora appeso al muro con l’elenco dei gelati “Motta”, una sala d’aspetto con qualche sedile di legno ancora buono illuminata da una luce al neon traballante. Una macchina pubblica, così la definì l’autista che me la propose, mi portò all’albergo, ovvero alla fine dell’unica strada percorribile. Dovetti percorrere gli ultimi duecento metri di sentiero a piedi con una valigia piuttosto pesante, facendo attenzione a non impigliarmi in alcune piante selvatiche invadenti e spinose. Per giunta una nebbia biancastra rendeva il panorama assai inquietante. Intravidi tra alcuni uliveti secolari la struttura di quella che mi apparve poco più di una casa di campagna. Mi venne incontro uno zoppo corpulento e calvo con l’aria di non aver visto un essere umano da diverso tempo. Scoprii in seguito d’essere l’unico ospite di questo piccolo albergo, lontano dal paese, a strapiombo su di un’alta scogliera sul mare in burrasca. insomma l’ideale per tirarsi su di morale. Ma a dispetto di tutto trovai invece una buona sistemazione. Il proprietario dell’albergo si dimostrò gentile. La camera era ben arredata. I mobili di legno sbiancato la rendevano accogliente. Al mattino trovai un’abbondante colazione con cornetti appena sfornati, frutta fresca e caffè. Si penserà che alle fine le cose si stessero aggiustando, macché, non si stava aggiustando un bel niente. Il punto era che cercavo di fuggire da qualcosa e neanch’io sapevo da cosa. Avevo deciso di non leggere giornali, di non seguire notiziari, di non ascoltare e non parlare con nessuno. In poche parole avevo in mente una specie di cura disintossicante dagli obblighi quotidiani. Non c’era niente che mi andasse a genio e questo mi mandava in bestia. Nel tardo pomeriggio raggiunsi la spiaggia scendendo per un sentiero piuttosto faticoso. Mi ero seduto su uno scoglio e guardavo. Stavo cercando di stabilire un contatto con l’ambiente che in una giornata nebbiosa e fredda di gennaio non aveva nulla d’accogliente. Rimasi infreddolito fino a sera a guardare il mare con cui condividevo quel moto irrisolto d’andirivieni. E là, dove la scogliera si chiudeva in un piccolo golfo, vidi la barca. Erano in quattro, tre ragazzi più o meno della stessa età e una donna anziana che uno di loro aiutò a scendere per prima. Il ragazzo scuro, più scuro degli altri, invece scese alla fine. Come dicevo si accorse che lo stavo guardando e mi sorrise.

Il giorno dopo tornai sulla spiaggia, nello stesso posto della sera prima. Guardai verso l’insenatura dove avevo visto sbarcare quei migranti. La barca era sparita e non c’era nessun segno che rivelasse tracce di un recente approdo. Nessun resto di salvagenti o altri oggetti di cui si sarebbero dovuti liberare, nessuna impronta evidente sulla sabbia. Temetti di averlo immaginato, d’altra parte ero in una fase di confusione e qualsiasi cosa mi accadesse era possibile. Invece lo vidi. Vidi il ragazzo che era sceso per ultimo che giocava sulla spiaggia solitaria con un pallone che prendeva strani rimbalzi. Un tiro sbagliato lo fece rotolare dalla mia parte. Il ragazzo lo inseguì e mi rivide. Ancora s’illuminò di un sorriso al quale risposi con un ghigno. Che voleva? Possibile che non riuscissi a starmene in pace nemmeno in un posto isolato come quello? In realtà ciò che più m’infastidiva era quel sorriso tutto denti, denti bianchissimi e grandi occhi lucidi che brillavano in contrasto col giorno opaco e freddo, giorno che ben si confaceva col mio stato d’animo. Lo guardavo, mi guardavo e sentii montare una gran rabbia. Me la presi con me stesso. Che diritto avevo d’essere incattivito col mondo quando al mattino mi alzavo trovando la colazione pronta e ogni confort, lì, tutto disponibile, senza neppure lo sforzo di dover chiedere? Quel ragazzo non sapeva se avrebbe trovato di che sopravvivere, eppure rideva. Perciò mi alzai, raccolsi il mio zaino e tornai in albergo ancora più afflitto. Il proprietario dell’albergo mi salutò chiedendomi a che ora intendevo cenare. Al mio arrivo mi ero premunito di avvisarlo che ero lì per certi studi particolari che m’imponevano di non conversare con nessuno se non per cose esclusivamente pratiche e l’orario della cena vi rientrava. Fu molto comprensivo, anche se ogni volta mi scrutava cercando di capire di che diavolo mi stessi occupando.

Anche quella notte fu una notte di tormenti. Pensavo a questo ragazzo, perché fosse rimasto solo, dove fossero gli altri suoi compagni. Pensavo a quanto avesse potuto patire e quali pene avrebbe dovuto affrontare semplicemente per procurarsi un pasto. Sovrapponevo a questi pensieri altri che mi riguardavano personalmente, dicendomi che la fatica di doversi procurare un pasto era comunque un fatto diretto in un’azione concreta, in un certo senso il bisogno primario allontanava ogni altro genere di tormento interiore e non meno pesante da sopportare. Così pensai che da un certo punto di vista tutti gli uomini, chi per un verso, chi per un altro, si trovassero nella medesima condizione di sofferenza. Pensai che anche risolti i bisogni primari la felicità ci fosse preclusa per il semplice fatto che rispetto agli altri animali avevamo la consapevolezza della nostra breve esistenza. Con questa consapevolezza ci muovevamo disordinati, ognuno a cercare un proprio modo di vivere o sopravvivere. Mi addormentai su questi pensieri sconclusionati. Fu un sonno irrequieto, senza sogni, un sonno vuoto.

Al mattino presto ero di nuovo al mare. Il sole invernale catturava in bianco e nero gli scogli su cui si abbattevano onde violente di schiuma. Mi raccolsi nella giacca a vento chiedendomi ancora una volta cosa mi aveva spinto a scegliere un posto così freddo e desolato. Certamente aveva a che fare con l’inconscio, non c’era altra spiegazione. Nel quadro immobile aspettavo di scorgere almeno un gabbiano che interrompesse la monotonia del paesaggio. Invece vidi la figura in controluce del solito ragazzo sulla spiaggia, che dopo qualche palleggio calciava questo pallone dalla forma irregolare, in un tiro studiato verso una porta immaginaria. Come se avvertisse la presenza di qualcuno si voltò a guardarmi e ancora mi sorrise. Mi sforzai di ricambiare e tirai le labbra in una smorfia poco allegra. Ma lui non parve cogliere la mancanza d’allegria in quel sorriso e alzò una mano per salutarmi.

Il giorno dopo ero ancora avvolto nella mia solitudine, direi al riparo nella mia solitudine e pensai di ritornare a casa. Anche lì, al mare d’inverno, nella ricerca di tramonti diversi che non fossero i soliti tramonti “magici” che detestavo, in un’atmosfera lontana dalla calura estiva e dagli schiamazzi dei bagnanti, anche lì non avevo trovato alcunché. Avevo cercato d’isolarmi dal mondo per vedere, vedere se nel silenzio avessi potuto agguantare qualcosa d’inaspettato. Macché, niente. Mi stavo preparando per la partenza quando il proprietario dell’albergo mi disse d’indossare la mascherina. A quella richiesta insolita dissi che non capivo a cosa si stesse riferendo. “Il contagio, signore. Non ha sentito il notiziario? Siamo tutti a rischio.” Continuò a parlarmi della pandemia, di quanti morti aveva provocato e quali misure eravamo tenuti ad osservare. “Non abbiamo potuto parlarne in questi giorni, per quel suo lavoro… come mi ha detto preferiva non essere distratto, ma io pensavo fosse informato.” Ascoltai tutto con indifferenza. In effetti non riuscivo a cogliere l’importanza dell’accadimento. Ero forse anestetizzato dal mio malessere. Non mi parve ci fosse niente di più tragico. Così si vive fuori da ogni altro sentimento quando ci si concentra sulla propria piccola esistenza e questo mi sembra qualcosa di veramente odioso. Odiavo me stesso e non facevo altro che ostacolare il ritorno alla normalità, più precisamente alla vita. Dissi che volevo saldare il conto e che me ne sarei andato l’indomani. “Ma come? Non ha sentito? Non può lasciare la città!” Improvvisamente mi sentii arrestato senza aver commesso alcun reato. Più tardi elaborai il processo concludendo che la giustizia arriva sotto forme inaspettate se le colpe sono di una certa natura. Fu comunque un periodo meno insopportabile di quanto potessi immaginare. Non fu altro che il passaggio da un tipo d’isolamento che avevo scelto ad un altro tipo d’isolamento imposto. Certo, si potrebbe obiettare non trattarsi della stessa cosa e infatti non lo è, ma come si sarà capito, non sono esattamente la persona che incontrando qualcuno gli urla “Ehilà, come va? Bella giornata oggi, eh?” No, sono uno dentro i miei pensieri, una prigione di gran lunga più insopportabile di una reclusione causata da un virus.

Un giorno si chiuse anche questo periodo. La stagione era cambiata. Al mattino dalla finestra entrava una luce più calda e mi svegliavo col cinguettio delle allodole. Il proprietario dell’albergo col quale avevo finito di cedere a occasionali conversazioni, mi disse che avevano aperto i confini tra le regioni. Potevo tornare a casa. Non accolsi la notizia con entusiasmo. Ancora una volta ero vittima delle mie contraddizioni. Alla sera ritornai alla spiaggia, nel solito posto sullo scoglio. Mi meravigliai di come fosse diverso il paesaggio. Quel periodo d’assenza mi aveva lasciato l’immagine grigia dei giorni trascorsi avvolto nella giacca a vento. Adesso potevo respirare l’aria tiepida a pieni polmoni e guardare il cielo con un brivido di novità. Il mare era tranquillo e azzurro come ancora non aveva potuto vederlo. Tutto sembrava prepararsi per un nuovo inizio, ma ancora mi vidi sovrastato dalla mia solitudine. Ripensai di tornare alla mia città, che tanto… Mi trattenni ancora qualche istante per guardare un gruppetto di ragazzi che lasciava la spiaggia ridendo tra di loro, felici d’essere usciti dalle restrizioni o più semplicemente felici di vivere. Cercai di considerarli con empatia, ma non mi riuscì. E poi ancora lui, come l’immagine di un sogno che si ripete. L’emigrante, il ragazzo del pallone sformato. Anche lui mi vide e mi venne incontro col solito braccio alzato per salutarmi, sorridendo come sempre, un sorriso gioioso senza riserve. Allora anch’io ho sorriso, non più a denti stretti. Mi fece vedere il pallone, era davvero brutto, un pallone di cuoio dalla pelle rovinata che aveva preso una buffa forma irregolare. Mi scappò da ridere. Anche il ragazzo si mise a ridere. Ridemmo sempre più presi da quel pallone che un po’ ci assomigliava, quel pallone che calciandolo andava dove voleva e noi che continuavamo a calciarlo sempre più forte inseguendo quella strana traiettoria imprevedibile. Continuammo a calciare e a correre dietro quel buffo pallone deformato cercando di sottrarcelo l’un l’altro, come se ad ogni calcio avessimo trovato, ognuno per conto suo, un buon motivo per continuare a vivere.