MAZZOTTI Sonia

“La prima stella pallida”

Le nuvole passano, si trasformano, ed io le osservo cercando di distinguere un volto o la sagoma di un animale per seguirle fintanto che non si sfilacciano come una tela sdrucita.

Intorno a me un mare di terrazze deserte dove il tempo delle mie giornate scorre lento.

I tetti color mattone grondanti di pioggia sono lontani come la vita che ho lasciato nella piccola città dove sono nata e quando ci penso sento come una tenaglia che mi stringe il cuore.

Mi mancano le amiche del cortile, le corse nei campi e perfino la nebbia, ma più di tutto mi manca mio fratello.

Ora sono qui, in questa città enorme, con larghe strade affollate, grandi palazzi, mendicanti e facce sconosciute.

Le poche volte che usciamo, la mamma mi stringe la mano fortissimo, quasi avesse paura che io possa perdermi o che qualcuno mi porti via.

Anch’io ho paura e spesso sogno che dobbiamo prendere un autobus in un posto lontano che non conosco, senza case, ma c’è molta gente e quando si aprono le porte tutti si precipitano e noi non riusciamo a stare vicine. La sua mano mi sfugge, la vedo salire costretta dalla folla, ma invece io non ci riesco. L’autobus riparte ed io resto lì da sola. Vedo mia madre dal finestrino posteriore che si allontana, mi guarda disperata ma non riesce a fare niente e allora mi sveglio piangendo.

Qui abitiamo all’ultimo piano di un vecchio palazzo con larghe scale scure e un ascensore puzzolente dentro una gabbia polverosa che però arriva solo fino al piano di sotto e le ultime rampe le dobbiamo fare a piedi. Gli schiocchi secchi degli ingranaggi, che si trovano proprio oltre il muro, rimbombano all’interno della nostra unica camera e spesso di notte mi sveglio di soprassalto, ma poi sento la mamma vicino e mi riaddormento abbracciandola.

II principale di mamma ci lascia usare questa stanza, tra il laboratorio e il bagno, ed è sua anche la poltrona-letto dove dormiamo, che sarebbe per una persona sola, ma per fortuna io sono piccola e magrolina e così riusciamo a starci in due.

Poi abbiamo un tavolino basso, sul quale la sera mangiamo stando sedute sul letto, uno scaffale con sopra un fornellino e uno scatolone per i vestiti.

Dobbiamo stare attente a non farci vedere perché, tranne le altre operaie, nessuno sa che siamo qui: è una sistemazione provvisoria ma al momento è l’unica che possiamo permetterci.

La mamma deve lavorare tutto il giorno ed io passo le mie giornate tutte uguali, da sola su questa terrazza, come se fosse una zattera in mezzo al mare.

Poi finalmente arriva l’ora del pranzo e vengono su anche le ragazze della sartoria. Sedute sul muretto, scherzando, chiacchierando e offrendo il viso al sole, mangiamo insieme il pasto preparato la mattina di fretta.

Di solito si tratta di un panino con frittata o verdura cotta, con molto pane e poco del resto, ma per me è il momento più bello della giornata e allora parlo, salto, corro, ballo, mentre le ragazze mi guardano e ridono delle mie sciocchezze.

Tutte abbiamo un sogno ma anche una catena che ci tiene legate a terra.

Presto la pausa finisce e in un lampo ragazze e cartocci spariscono. Così sono di nuovo sola e allora mi sdraio sul muretto e riprendo ad osservare le nuvole fantasticando su di esse, aspettando che il cielo mi regali tutte le sue sfumature di azzurro, che è il mio colore preferito.

Passano le ore e finalmente appare la prima stella, ancora pallida nel cielo chiaro e allora comincio a contarle man mano che si presentano, ma presto perdo il conto.

Poi mille stelle illuminano il cielo e sono loro che guardano me, entrano nei miei occhi e arrivano fino in fondo al mio cuore e, non so perché, ma mi sento meno sola.