VENIERI Massimo

“Fuga senza riposo”

Il corpo cadde al suolo con un tonfo e vi rimase come uno straccio lurido gettato dopo l’uso. Subito una pozzanghera rosso cupo si allargò sotto di esso. La spada nella mia mano era ancora sospesa in aria, macchiata dello stesso colore. Io ero immobile, paralizzato, il cervello duro e inerme come una pietra. Mi guardai attorno: la via era viscida, scura e silenziosa a quell’ora tarda della notte. Mi accorsi di due uomini, che rigidi guardavano la scena da un angolo appena illuminato dalla fioca luce delle loro torce. Uno dei due mi si avvicinò, i suoi occhi lampeggiavano – Dovete sparire in fretta – sibilò – I gendarmi verranno a cercarvi e se vi troveranno sarete spacciato. Riconobbi la voce amica di messer Geraldo.

– Non volevo… – dissi piano, con la bocca impastata.

– Non importa oramai – rispose indicando il corpo a terra –. Quel che è fatto è fatto, ma è necessario che vi mettiate in salvo prima che sia tardi.

– Sì… sì – balbettai. Mi accorsi di avere un taglio alla sommità del capo e avvertii il calore del sangue sul mio volto, riconobbi l’odore aspro, il sapore dolciastro.

Geraldo mi passò sul viso un panno pulito e prima di congedarmi mi prese una mano tra le sue: – So quanto valete e che la presenza del Divino alberga in voi – disse piano, – ma sarete giudicato come un uomo, non solo da nostro Signore, ma anche dagli altri uomini. Andate dunque e buona fortuna.

Presi il cavallo e corsi via, senza voltarmi indietro fino a quando non fui oltre le mura della città.

Entrai in un bosco e mi ritrovai stretto tra alti fusti sovrastati dal cielo nero. Il buio attorno a me era assoluto, un mare misterioso e intellegibile. La testa mi girava e avvertivo la febbre salire, mentre immaginavo in modo ossessivo la mannaia del boia che si abbatteva sul mio collo. Qualcuno doveva già essere sulle mie tracce. Proseguii al galoppo finché non giunsi in cima a un’altura e di là potei scorgere il baluginare della Città Eterna. Mi chiesi se avrei più rivisto i giardini magnifici e gli antichi palazzi. Mi ricordai di Luisa, pensai al suo corpo morbido e caldo, all’alcova accogliente, all’odore pungente dei fiori che saturava la sua stanza. Quelle suggestioni durarono un momento, ripresi il cammino e per ore ancora cavalcai nella notte, finché stremato non vidi profilarsi la linea delle montagne nere e alle loro spalle la flebile luce dell’alba. Allora trovai un prato umido e fresco in cui stendermi e far riposare il cavallo.

Il giorno dopo mi diressi a sud. Mi ero ripulito alla meno peggio la ferita, ma il taglio mi doleva e sentivo le tempie pulsare. A metà pomeriggio feci una deviazione per vedere il mare e bagnarmi. Faceva molto caldo e sudavo abbondantemente sotto la giubba di fustagno. Vidi da lontano due cavalieri con gli stemmi papali avanzare nella polvere. Provai ad accelerare finché non comparve all’orizzonte il mare, brillante al cospetto dell’astro infuocato. Legai il cavallo ad un albero e attirato dal ritmico sciabordare delle onde avanzai barcollando su un sentiero che mi condusse oltre la pineta, fino alla spiaggia deserta, striscia pallida sotto al cielo limpido. Le mie narici si riempirono dell’odore della salsedine, mentre i miei occhi vagavano in quell’immensità di luce scintillante.

Poi all’improvviso calò l’ombra, il sole si incupì e in pochi attimi divenne completamente nero, come se una maledizione avesse colpito me e il mondo intero.

Mi accovacciai sulla sabbia umida e attesi che si compisse il mio destino.